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Avv. Rita Eva Cresci

Introduzione – il contesto

Il fenomeno del Cloud Computing rappresenta in modo esemplare l’effetto disruption della trasformazione digitale, posto che il suo successo poggia principalmente sul crescente uso della rete internet e sulla diffusione capillare dei dispositivi mobili che permettono ai consumatori del web, nessuno escluso – persone, aziende, professionisti, PA – un accesso agevole, economico e costante alle risorse informatiche.

Com’è noto, si dicono eccezionali quelle tecnologie che con il loro avvio scardinano ecosistemi produttivi, modelli organizzativi e sociali, modificando irreversibilmente mercati, politiche e prassi. Una di queste scoperte, a cavallo tra il 1800 e il 1900, fu proprio l’elettricità, novità rivoluzionaria nella storia dell’uomo: nonostante la lampadina fosse stata percepita fin da subito come rivelazione dal grande potenziale, passarono però oltre trent’anni perché diventasse il centro propulsore del mondo produttivo ed ancor di più per diffondersi nella maggior parte della società civile. 

In questi decenni di profondo cambiamento, anche l’attuale società dell’informazione, costantemente in bilico tra reale e virtuale, sta vivendo una simile metamorfosi organica ed è già chiaro che nulla sarà più come prima mentre ci si misura con il futuro forse più rivoluzionario della storia.

Una delle parole d’ordine dell’era dell’innovazione è senz’altro “tempestività”. Tutto si muove a ritmo velocissimo (con l’IoT siamo già arrivati al real time): nei soli ultimi 15 anni le aziende sono chiamate a rapportarsi al mercato con una pressione in termini di competitività senza paragoni, considerato, in primis, il venir meno dei limiti della territorialità e della fisicità oggi superati dalla dimensione liquida della rete.

Secondo questi nuovi paradigmi, dunque, mentre le applicazioni informatiche si sono fatte strumenti sempre più irrinunciabili per l’impresa, i poteri sulle risorse e sulle funzionalità IT sono molto cambiate rispetto al passato. Le facoltà di interazione dell’utilizzatore rispetto ai servizi di Cloud Computing prescelti non sono più quelle che aveva il committente “dominus” rispetto al lavoro del suo programmatore, in ragione del fatto che, nell’era della nuvola, il rapporto tra le parti non più trova la sua determinazione nella “relazione tra i contraenti”, ma viene di norma regolato attraverso le clausole di un contratto “preconfezionato” e rilasciato on line da potenti player multinazionali.

Da un altro punto di vista,  l’inarrestabile fluire del progresso tecnologico e la crescente capacità del digitale di mettere in connessione informazioni, luoghi e persone ha parallelamente disegnato innovative geometrie di mercato (new-economy, sharing-economy, data-economy[1]), provocando una crisi senza precedenti di alcuni valori di indistruttibile tenuta storica, quali ad esempio quello di proprietà privata, istituto giuridico di potente funzione sociale, che ha accompagnato l’umanità fin dalla sua affrancazione dalle primordiali dinamiche collettive di sopravvivenza[2].

Detto contesto (l’esponenziale pervasività della rete, lo spostamento nella dimensione dell’onlife[3] e l’incalzare del progresso tecnologico) ha generato in risposta concetti nuovi come quello di fruizione e interoperabilità, favoriti da una significativa semplificazione dei sistemi informatici, via via resi sempre più accessibili con investimenti graduali e contenuti.

La maturazione delle tecnologie e un nuovo utilizzo di Internet come strumento abilitante l’interazione delle risorse, stanno dunque alla base della modifica sostanziale di domanda e offerta nell’Industry ICT (Information and Communication Technology). Il prodotto di questo cambiamento è una nuova filiera di settore, quella del Cloud Computing appunto, che si sostanzia nella standardizzazione dei servizi informatici di commodity più disparati (computazionali, infrastrutturali, di memorizzazione, di archiviazione, di intrattenimento, di protezione, gestionali ecc. ecc.). 

Si è dunque passati da una concezione proprietaria degli strumenti (cioè basata sulla cessione della titolarità dell‘immateriale “tech-product” realizzato su misura o concesso ad personam) a quella che è stata definita “la cultura dell’accesso”[4] in forza della quale viene meno la materiale detenzione delle risorse e diventa centrale la mera disponibilità (e strumentalità) delle stesse.  Da ultimo, la smaterializzazione documentale, la centralità del dato, la de-localizzazione di molte attività, la necessità di operare da remoto e, contestualmente, in ambienti condivisi (ancor più in questo ultimo periodo di distanziamento sociale a causa della pandemia in atto), hanno spinto il mercato verso il Cloud a ritmo vertiginoso, con la conseguente proliferazione di utenti sempre più vulnerabili rispetto ai termini di una negoziazione che, pur presentandosi apparentemente molto accessibile, cela in realtà aspetti di indubbia complessità e rischiosità.

Se poi prendiamo in considerazione l’attuale livello generale di (an)alfabetizzazione digitale in Italia, che senz’altro riguarda anche le PMI nazionali[5], il dato diventa alquanto preoccupante, posto che, trattandosi formalmente di contratti per adesione celebrati esclusivamente on line, l’imprenditore medio si trova a sottoscrivere accordi spesso privo addirittura di adeguata consapevolezza rispetto la sua stessa libertà negoziale. 

Il rapporto “virtuale” tra fornitore e utente è, infatti, completamente mutato rispetto a quello “reale” tra committente e sviluppatore/persona con un equilibrio tra i contraenti fortemente sbilanciato: l’offerta di servizio erogata dagli OTT (i cosiddetti OverTheTop, leader indiscussi del settore come Amazon[6], Microsoft e Google) viene proposta attraverso contratti standard  point and click[7] destinati ad un pubblico internazionale e predisposti (per lo più in lingua inglese) unilateralmente secondo schemi rigidi, uniformi e del tutto spersonalizzati.

I vantaggi di flessibilità e di contenimento costi, poc’anzi indicati, vengono dunque remunerati in maniera indiretta con l’imposizione di alcuni rischi e/o oneri intrinsechi alla stessa fornitura del servizio che l’utente si trova costretto ad accettare passivamente “così com’è”.

Il presente project work, concentrato principalmente sulla sfera delle micro, piccole e medie imprese, si prefigge di indagare sui grandi cambiamenti tecnico-operativi provocati dall’avvento del paradigma Cloud sul mercato, con focus sulle questioni di natura legale e contrattuale connesse all’indiscutibile posizione dominante dei giganti del web.

In particolare, dopo una panoramica sull’offerta di servizi e applicazioni oggi disponibili in rete e sugli aspetti più generali di inquadramento giuridico del contratto di servizi cloud, l’attenzione verrà focalizzata sui tratti nevralgici della negoziazione tra Cloud Service Provider e Cloud Service Consumer, cercando di delineare prospettive di ribilanciamento e nuove tutele che appaiono profilarsi all’orizzonte anche a seguito delle recenti iniziative nazionali e transazionali nel settore.

Nelle conclusioni verrà profilata l’ipotesi di una soluzione legaltech che potrebbe essere di aiuto al contesto produttivo per contrastare le derive di stampo privatistico e di pericolosa dominanza pseudo-monopolistica di cui il mercato digitale con il cloud sta facendo esperienza.


[1] In un sistema di mercato sempre più data-driven, come è quello attuale, la qualità delle informazioni che possono essere tratte dai dati aumenta con la quantità e qualità dei dati disponibili e per questo i player che operano nell’economia digitale hanno un grande interesse ad accedere ai dati degli operatori ben sapendo di poterli poi commercializzare con prospettive di elevati profitti. Si ricorda, in proposito, la popolare definizione coniata dall’Economist: “Data is the new fuel, the new money” (The Economist, 2017).

[2] Tra gli altri Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017.

[3] Il termine Onlife è stato coniato da Luciano Floridi, per rappresentare l’esperienza che l’uomo vive nelle società iperstoriche dove “non distingue più tra online o offline”, e addirittura dove “non è più ragionevole chiedersi se si è online o offline”.  Dal sito web di Luciano Floridi: http://www.philosophyofinformation.net/research e in Onlife Manifesto “Being human in a hyperconnected era”, Springer International Publishing, Londra, 2015.

[4]  Da J. Rifkin. L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano 2000

[5] L’indice Desi dell’UE nel giugno del 2020 ci mette al 25 posto sui 28 stati europei. Sempre in fondo alla classifica con il 42 % degli italiani tra i 16 e i 74 anni che oggi possiede competenze di base per l’utilizzo della tecnologia informatica. Siamo un popolo di possessori di smartphone ma poco capace di utilizzare la rete e disabituato all’uso del pc e del tablet. Straordinariamente forti nella messaggistica istantanea e in videogiochi, molto meno nell’affrontare la complessità di un mondo digitale, segnati da un digital divide che solo ora comincia ad essere affrontato come nuova grande questione nazionale.

[6] AWS domina il mercato di questi servizi e ne stato il precursore iniziando nel 2006.

[7] Sulla fattispecie del contratto “point and click” si veda G. CASSANO in Diritto dell’Internet, Giuffrè, 2005, «Comunemente si intende per tale quella modalità di conclusione del contratto on line che passa attraverso la visualizzazione sul monitor del PC connesso ad Internet del regolamento contrattuale predisposto dall’operatore on line, con il quale si richiede il riempimento dei campi (c.d. form) volutamente lasciati in bianco dal proponente; quali, ad esempio, il nome dell’aderente, il luogo ove si desidera venga spedita la merce […] e quant’altro sia ritenuto necessario ai fini della determinazione dell’accordo».